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Il futuro nelle radici

Jacqueline Ki-Zerbo

Nell’Africa patriarcale il ruolo delle donne è sempre stato subalterno a quello maschile. La globalizzazione e i processi di aggiustamento strutturale, rendendo più povere le famiglie, hanno messo in rilievo il ruolo delle donne nel garantire la sopravvivenza. Il futuro sta in un nuovo partenariato tra i sessi. Se in Europa saluto dicendo buongiorno, tutti mi rispondono allo stesso modo: “Buongiorno”. In Africa, in alcune comunità, gli uomini avrebbero risposto “Umbàa” e le donne avrebbero risposto “Unsèe”. Già nel modo in cui si risponde al saluto, c’è l’indicazione della costruzione sociale.

Per lo più patriarcali, le società tradizionali africane attribuiscono una preferenza chiara a ragazzi e uomini, perché sono coloro che possono perpetuare il cognome della famiglia e rappresentano il sostegno in caso di malattia e di vecchiaia. Le donne, invece, vengono date in matrimonio per costruire le famiglie altrui. Questa preferenza si esprime fin dal momento della nascita perché, quando una donna partorisce, il modo di trattare chi nasce è completamente diverso a seconda che sia maschio o femmina. L’educazione delle bambine è riservata soprattutto alle donne ed è confinata nella sfera di casa. Il lavoro domestico, sicuramente importante, non è pagato, non ha valore economico e questo spiega l’invisibilità delle donne. La divisione del lavoro nell’economia tradizionale e nel periodo della colonizzazione ha fatto sì che le donne diventassero il principale attore nel campo agricolo. Per questo oggi le donne nell’agricoltura di sussistenza sono fondamentali. Assicurano la semina, ma non fanno la raccolta.

 

Quando si arriva al momento della suddivisione dei prodotti del raccolto scompaiono, non contano più. Sulle loro spalle grava il lavoro più duro, ma senza parteciparne al risultato. Nelle cerimonie familiari di matrimonio, di battesimo o durante i funerali, donne e uomini hanno ruoli diversi e ben precisi. Se le donne non svolgono il loro ruolo, l’evento familiare o sociale non può avere luogo. Gli africani, uomini e donne, dovrebbero prendere in considerazione questi aspetti della realtà per cercare di raggiungere uno stato in cui uomini e donne abbiano la medesima dignità. In Africa certe forme di femminismo europeo non sono utili. Per le donne africane si tratta di mettere in piedi un partenariato egualitario tra sessi. La colonizzazione ha costruito scuole per uomini e pochissime scuole femminili.

 

La scarsa scolarizzazione ha condizionato lo status economico della donna africana che, priva di reddito, si è trovata a dipendere sempre più dal padre o dal marito. Quando, tra il 1960 e il 1990 c’è stata l’indipendenza, almeno teorica, di molti Stati africani, l’Africa ha continuato ad avere bisogno di interventi esterni da parte delle potenze ex coloniali e dell’Occidente in generale. Quegli interventi erano rivolti soprattutto agli uomini, anche perché riguardavano soprattutto l’aumento delle esportazioni, attraverso la trasformazione dell’agricoltura da attività legata alla sufficienza alimentare locale, ad attività rivolta all’esportazione. Alle donne veniva lasciata l’attività su piccola scala legata alla famiglia.

... Ben più dell’altra metà del cielo

Finite le illusioni sullo sviluppo, ci si è trovati di fronte alla pillola amara degli aggiustamenti strutturali che hanno costretto a passare alla ricerca di soluzioni per ridurre la povertà. A quel punto ci si è davvero dovuti occupare del problema dell’educazione e di quello della salute. Si è cominciato a capire il ruolo centrale delle donne e ci si è accorti che esse reggevano sulle loro spalle ben più della “metà del cielo”. Sono state loro, infatti, a garantire la sopravvivenza, la salute e l’educazione. Quando, in seguito ai programmi di aggiustamento strutturale e alle misure restrittive conseguenti, i capofamiglia si sono trovati senza lavoro, le donne hanno supplito gli uomini, garantendo col loro lavoro la sopravvivenza della famiglia. Un altro tema di enorme importanza è quello della globalizzazione. L’Africa vi è arrivata troppo presto, quando il continente non aveva ancora finito di costruirsi con forme istituzionali appropriate.Vista dalla parte delle donne, la globalizzazione tende a spogliarle di quei benefici che potevano trarre dall’agricoltura praticata.

 

Nel Burkina Faso, ad esempio, le donne si sono dedicate a produzioni di qualità, quali il burro di Karité e il riso fluviale. La globalizzazione le ha private di quel poco che riuscivano a guadagnare dalla commercializzazione di quei prodotti. Adesso, sono più povere di prima. Viviamo così un tragico paradosso. Da una parte sono aumentate le conferenze per la parità di accesso ai diritti, alla scuola e alla salute delle bambine e delle donne. Dall’altra assistiamo a pratiche di commercio e di mercato mondiale che riducono sempre più la scolarizzazione femminile. Quando non ci sono mezzi economici, infatti, se si deve scegliere se scolarizzare un maschio o una femmina, si sa quale sarà la scelta. Riconoscere il valore del lavoro delle donne significa mettere in luce il loro ruolo all’interno della comunità e della nazione, ammettere il contributo che danno non solo allo sviluppo sociale, ma anche alla ricostruzione della forza lavoro e alla produzione nazionale.

 

Di questi fattori si deve tenere conto quando si decidono le strategie e le microeconomie a livello locale. Ma alle donne deve essere riconosciuto un ruolo anche nella macroeconomia.  A dispetto della lentezza dei cambiamenti di mentalità, non si deve essere pessimisti circa la possibilità di un partenariato fra uomini e donne fondato non solo sull’uguaglianza dei diritti, ma su quella dei fatti. La globalizzazione, se vissuta correttamente come una opportunità, permette di correggere le distorsioni esistenti nei rapporti sociali, che fino ad ora hanno colpito particolarmente le donne. Il futuro sta nel partenariato tra donne e uomini che, per essere umano, deve trovare la sua linfa nel passato,

nelle radici.

 

Dalla storia le nostre radici

 

STAMPA

Joseph Ki-Zerbo

Per ricordare la figura di Joseph Ki-Zerbo pubblichiamo un suo intervento fatto all’Università di Roma. In esso ci pare sia riassunto il suo pensiero che poggia su una convinzione di fondo: per poter costruire il proprio futuro umano occorre riappropriarsi del proprio passato. L’Africa ha una lunga storia, troppo spesso ignorata. Anche perché è in Africa che ha avuto inizio la storia dell’umanità. A seguire un suo ricordo a cura della moglie Jaqueline.

Mi piace considerare l’Africa come un discorso, perché questo mi ricorda la forza, l’energia, la ricchezza che sono nella parola creatrice, nel verbo. E se l’Africa è come un discorso che è stato scritto dai nostri antenati, dobbiamo sapere che la storia non è terminata, che il discorso va proseguito.

Ho avuto la fortuna di studiare il latino: Cicerone, Sallustio, Tacito… Eppure mi rendo conto che ciò che è importante non è quello che abbiamo imparato in latino, ma ciò che abbiamo dimenticato in africano.
Dobbiamo considerare la storia autoctona, non quella che ci hanno imposto da fuori.
Ciò che contraddistingue l’uomo dagli altri animali non è tanto il presente, quanto le altre due dimensioni della storia, cioè il passato e il futuro. La storia, infatti, non è soltanto il passato; essa è come un motore a tre tempi: il tempo del presente non è abbastanza significativo, qualificante, indicatore dell’umanità. Gli animali sono molto concentrati sul presente. Per esempio, il fatto che alcuni quadrupedi abbiano la testa rivolta verso il suolo indica l’importanza che ha per loro il presente del qui ed ora.

Quando l’uomo ha assunto la posizione eretta

Un momento decisivo nella storia dell’umanità fu quello in cui l’uomo assunse la posizione eretta, e ciò è avvenuto in Africa. Questa tappa dell’evoluzione è considerata come un inizio di liberazione dell’uomo. Infatti, prima di allora l’uomo era costretto a dedicarsi completamente al presente. Ma dal momento in cui ha assunto la posizione eretta ha potuto finalmente utilizzare le sue mani, e attraverso di esse iniziare la sua civilizzazione. Nel frattempo, la parte inferiore del cranio ha assunto dimensioni più piccole, dando spazio all’encefalo, che si è accresciuto, ed egli ha imparato a guardare altrettanto bene davanti e dietro di sé, cioè a contemplare il suo passato e a prevedere il suo avvenire. Gli avvenimenti che si sono svolti in Africa, confermati dalla scoperta recente in Ciad di un cranio risalente a 7 milioni di anni fa, ci dicono che la storia è iniziata in Africa ben prima che in altri continenti.
Non dobbiamo studiare la storia per contemplare il passato, bensì per incontrare noi stessi, perché la dimensione animale della nostra personalità è una parte essenziale della nostra identità e se recuperiamo la storia lo facciamo anche per i nostri posteri, per i nostri discendenti, per i nostri nipoti.
Questa storia non è di nostra proprietà, è di proprietà del mondo. Essa è in accordo con la concezione africana della proprietà, che non è fondata soltanto sulla dimensione del presente, ma evoca gli antenati – per esempio con la concezione della terra che appartiene agli avi - e contempla ancora di più i discendenti, i figli, ai quali viene trasmessa.
Io penso che ciò che ci interessa oggi della storia è proprio questa capacità di reinvestire il passato nel presente e nell’avvenire. Non per riprodurre la storia in maniera meccanica e robotica, non per dare vita a dei cloni delle società africane di un tempo, ma per fondarci credibilmente sulle nostre proprie radici, senza esserne schiavi.
Ho appena terminato di scrivere un saggio dal titolo “Storia critica dell’Africa nera” - inserito nell’opera più vasta “Storia critica dell’umanità” - il cui scopo è quello di determinare i periodi di rottura e i periodi di ascesa della storia africana. Non vogliamo coltivare la recriminazione e l’odio, ma rifondarci e ritrovare la nostra identità.
Nella storia africana - come in quella europea – ci sono stati dei periodi di ascesa e di sviluppo, così come periodi di decadenza, a volte infernale. Ma questi periodi di rottura erano nostri, costruiti da noi.
Per centinaia di migliaia di anni, fino al XV secolo, l’Africa - anche quella sahariana - si è evoluta, tanto da essere alla pari con le civiltà di altri continenti, o addirittura alla loro testa.

La “preistoria” è un’invenzione europea

Il termine “preistoria”, inventato dai miei colleghi europei, non è esatto. Io non lo accetto. Esso si basa sul presupposto che fino a che un fatto non è riportato per iscritto, esso non può essere considerato come un fatto storico, ma preistorico. Io preferisco definirlo protostorico. Dal momento in cui c’è l’uomo c’è storia. Non c’è motivo per considerare preistoria il momento in cui l’umanità ha inventato la parola, l’arte, la religione, l’agricoltura. È ridicolo. Dovremmo dire che tutti i popoli che ancora oggi sono analfabeti e che non hanno una cultura scritta sono dei popoli preistorici, e questo non ha senso.
In Africa ha dunque avuto inizio la storia dell’umanità, che è poi proseguita nell’antico Egitto, nella cui civiltà ritroviamo molti elementi religiosi e della struttura sociale propri dell’Africa nera. L’Africa ha continuato a svilupparsi fino al XIV-XV secolo. In questo periodo alcuni grandi imperi africani potevano rivaleggiare con l’Europa.
Le statistiche dimostrano che le capitali dell’impero del Mali e del Ghana erano più popolate di quanto lo fosse Londra nello stesso periodo. Ho condotto personalmente una ricerca sulla densità della popolazione scolastica in quei tempi nella regione: tra i cittadini liberi l’insegnamento primario era più diffuso di quanto non lo fosse in Europa nello stesso periodo. Vi invito ad approfondire questo argomento nella mia “Storia dell’Africa nera”.
Non è per non parlare degli orrori, ma in Africa esistevano molti fattori positivi di sviluppo in ogni campo, anche in quello del diritto. Possiamo per esempio citare un motto che esprime uno dei fondamenti del diritto pubblico di quel tempo: “Non è il re che ha la sovranità, ma è la sovranità che ha il re”. Ciò significa che ci sono delle norme superiori che si impongono a tutta la comunità, a cominciare dal principale responsabile, che è appunto il sovrano.
C’erano inoltre dei sistemi di riproduzione sociale, per la formazione e la trasformazione delle società, ed esistevano dei veri e propri istituti per la formazione specifica, per esempio dei griot, coloro i quali avevano l’incarico di tramandare la memoria storica.
I miei ascoltatori si stupiscono sempre quando racconto che l’inno nazionale del Mali di oggi è un antico canto del XIII secolo intonato dalla madre di Sundiata, un ragazzo handicappato. Per riscattare l’onore della madre, derisa dalle altre donne del villaggio, Sundiata si ripropose di drizzarsi e di camminare correttamente, e quando riuscì a farlo, sorreggendosi al bastone che la madre gli aveva donato, ella intonò un canto che oggi, dopo sette secoli, è ancora importantissimo, tanto da essere l’inno nazionale del Mali. Si tratta di una narrazione in cui il mito si unisce alla storia, un esempio della possibilità di reinvestire il passato nel presente per il futuro.
Personalmente ho la sensazione che una delle cause interne del rallentamento dello sviluppo in Africa sia da ricercarsi nella disponibilità di spazi immensi; quando all’interno delle società nascevano dei contrasti, essi venivano risolti con la partenza di coloro che erano in minoranza. Questa soluzione era favorita dalla certezza che dovunque fossero andati, avrebbero trovato una terra e avrebbero avuto diritto sul territorio su cui si fossero insediati. Tutti gli “stranieri” che arrivavano avevano diritto al suolo, poiché non esisteva il concetto di “proprietà privata”. La terra era una proprietà collettiva a disposizione degli autoctoni e degli stranieri. Dunque i conflitti non venivano risolti con la guerra, ma in maniera “orizzontale”, attraverso l’allontanamento di una parte della comunità e delle ragioni del contrasto.
Al contrario, nella Valle del Nilo e nell’antico Egitto lo spazio era limitato; qui le contraddizioni non potevano essere risolte sfruttando le terre circostanti, ma solo attraverso la guerra, o attraverso le innovazioni tecnologiche, o ancora attraverso la riorganizzazione sociale. Si è così passati ad un livello di società superiore a causa dei conflitti e attraverso i conflitti.
I conflitti africani interni all’Africa sono sempre stati risolti dagli africani stessi e hanno portato alla configurazione di grandi realtà sociali e politiche come l’Impero del Mali o l’Impero del Ghana, così come sono descritti dagli scrittori arabi o dagli stessi scrittori africani del XV, XVI e XVII secolo.

Africa ed Europa un incontro mancato

Alcune carte geografiche europee del tempo mostrano l’imperatore del Mali seduto su un trono, con la dicitura “Re del Mali”, a testimonianza del fatto che esso veniva considerato alla pari di un qualsiasi altro sovrano. L’imperatore del Mali, e in seguito quello del Ghana, andando in pellegrinaggio alla Mecca portavano con sé tonnellate di oro, tanto da influenzare il prezzo del prezioso metallo in tutta la regione. Il re del Ghana era considerato il “re dell’oro”. Si trattava dunque di una regione molto sviluppata dal punto di vista economico, e vi si producevano anche merci con valore aggiunto, come tessuti, oggetti metallici, vetro. In alcune importanti città, ad esempio della Nigeria, si produceva così tanto che l’intera regione fu soprannominata la “Bisanzio nera”.
Quando i primi Portoghesi arrivarono in Congo, essi rimasero talmente impressionati al cospetto del re che lo salutarono e gli resero omaggio, come se si trattasse del proprio re.
Sono solito dire che l’incontro tra Africa ed Europa fu un incontro storicamente mancato, perché le cose potevano andare ben diversamente. Quando il re congolese Alfonso chiese l’aiuto dei tecnici europei per l’educazione, le infrastrutture, le costruzioni, ci si è rifiutati di inviarglieli. Lui desiderava importare dall’Europa ciò che avrebbe potuto migliorare la situazione del suo regno, ma gli è stato rifiutato qualsiasi aiuto, perché in quel periodo iniziava la tratta degli schiavi.
Re Alfonso si era convertito al Cristianesimo ed era molto osservante dei principi della religione cattolica, che faceva osservare anche con la forza; aveva favorito la distruzione degli oggetti di culto e delle scritture legate alle tradizioni degli antenati. Ma malgrado tutto egli non si è meritato la fiducia di coloro che lo avevano convertito, al punto che essi tentarono di ucciderlo durante la celebrazione di una messa pasquale, perché i negrieri lo volevano.
Vasco Da Gama stesso commise molte atrocità, organizzò e diresse non pochi massacri, alla pari dei conquistatori del continente americano, perché voleva a tutti i costi impedire agli arabi di dominare l’Oceano Indiano.
L’Africa non ha potuto costruire la sua storia beneficiando di un dialogo autentico con l’Europa, un dialogo che favorisse la civiltà.
I progressi civili tecnici e materiali dell’Europa erano nettamente superiori, e l’Europa ne ha approfittato per molto tempo, al pari di quanto ha fatto con altri continenti.
L’Europa ha ricevuto molto da ogni parte del mondo: dall’Africa; dal Medio Oriente, che ha rappresentato l’anello di congiunzione tra la cultura greco-romana e l’Europa occidentale (molti testi greci arrivarono infatti in Occidente proprio grazie agli arabi); dall’Estremo Oriente, con i cinesi, dai quali hanno preso la polvere da sparo. Questa e altre invenzioni sono state condotte in Europa, dove gli europei vi hanno aggiunto la loro creatività. Così si è arrivati all’invenzione delle armi da fuoco, che in Africa hanno fatto la differenza, anche se il continente era già ridotto alla sottomissione a causa della schiavitù.
I quattro secoli di tratta degli schiavi hanno letteralmente bloccato l’Africa, ma hanno fatto meno danni di quanti ne ha fatti un secolo di colonizzazione, sia perché a quel punto gli europei disponevano di mezzi tecnicamente troppo superiori, sia perché si trattò di una vera e propria sostituzione della civilizzazione africana da parte di quella europea, in tutti i campi, religioso, politico, culturale. La tratta degli schiavi rappresentò una profonda ferita nel corpo dell’Africa, ma il condizionamento fu più marginale, e il sistema africano restò strutturato secondo la propria tradizione.
Durante la colonizzazione invece l’Africa smise di vivere e di produrre per se stessa, e il concetto di sviluppo endogeno fu completamente abolito. Ha servito gli altri invece di servire se stessa, in vista di un cambiamento o di un’evoluzione, che avrebbero potuto compiersi, nel bene o nel male, e che le furono impediti, almeno fino alle lotte di liberazione negli anni Sessanta. Le indipendenze furono in buona parte delle false “liberazioni”; il neocolonialismo ha infatti sostituito il colonialismo, e ancora oggi non possiamo dire che il colonialismo è stato sradicato in Africa.
Non voglio terminare in un’ottica afropessimista.
L’Europa ha portato molti elementi positivi: la scienza, la religione, la coscientizzazione, le lingue, attraverso le quali possiamo attingere all’enorme ricchezza culturale e intellettuale a livello mondiale. Tutto questo pesa in modo positivo sul piatto della bilancia. Ma quello che noi avvertiamo ancora oggi è che per la massa della popolazione – non per i privilegiati che hanno potuto emergere, per gli intellettuali, come me, che hanno potuto beneficiare di questa eredità positiva, ma per la stragrande maggioranza della gente - la bilancia continua a pendere dalla parte negativa.

 

 

A quando l'Africa?
di Joseph Ki-Zerbo


La memoria, trampolino sul futuro

Nel corso di queste conversazioni vorrei che mi parlasse della posta in gioco e delle sfide che il secolo appena iniziato presenta per l'Africa. Mi rivolgo a lei in quanto celebre storico, testimone privilegiato di una gran parte della storia africana del secolo scorso. Lei è stato da sempre un personaggio contemporaneo politicamente impegnato, e ha rappresentato e difeso gli interessi e i punti di vista del continente africano in numerose conferenze e all'interno di commissioni internazionali di alto livello. Nel suo paese, lei si impegna, come politico di fama, per il futuro della sua gente, pagando spesso di persona. Attraverso i suoi libri e le sue conferenze lei ha contribuito come storico a far conoscere la storia mondiale a partire da una prospettiva africana. La pregherei, nel corso delle nostre conversazioni, di commentare gli avvenimenti storici attuali da un punto di vista africano. Al giorno d'oggi l'Africa ci viene mostrata immersa nel caos, invischiata in conflitti etnici, a tal punto che queste immagini vengono ormai prese per oro colato. Quali sono le grandi questioni che si pongono oggi in Africa?

Tra le grandi questioni c'è, innanzitutto, quella dello Stato. Lo Stato appena nato viene preso a manganellate da istituzioni come la Banca Mondiale. Le istituzioni esigono sempre meno Stato, e l'influenza delle imprese transnazionali si va imponendo sempre più. Avrà l'Africa il tempo di creare uno Stato "clone" dello Stato europeo? Oggi, i dirigenti africani ne fanno uno Stato patrimoniale o uno Stato etnico, che non è un vero Stato capace di trascendere i particolarismi a vantaggio del bene comune. Che tipo di Stato ne uscirà alla fine? E poi, c'è la questione dell'unità e della frammentazione dell'Africa. La mia idea è che l'Africa deve essere costituita attraverso l'integrazione, che per il momento non esiste. È attraverso il suo "essere" che l'Africa potrà veramente accedere all'avere. Ad un avere autentico; non ad un avere dell'elemosina, della mendicità. Si tratta del problema dell'identità e del ruolo da svolgere nel mondo. Senza identità, siamo un oggetto della storia, uno strumento utilizzato dagli altri: un utensile. E l'identità è il ruolo che assumiamo; è come in un'opera teatrale, nella quale a ciascuno è affidata una parte da interpretare. Rispetto all'identità, la lingua ha una grande importanza. Il secolo che è appena iniziato vedrà la decadenza delle lingue africane? La lenta asfissia delle lingue africane sarà drammatica, sarà la discesa agli inferi per l'identità africana. Perché gli africani non possono accontentarsi degli elementi culturali che giungono loro dall'esterno. Noi siamo forgiati, modellati, formati e trasformati dalla portata culturale degli oggetti e dei prodotti lavorati che ci arrivano dai paesi industrializzati del Nord, mentre noi inviamo al Nord oggetti che non hanno alcun messaggio culturale da portare ai nostri partners. Lo scambio culturale è molto più disuguale dello scambio dei beni materiali. Tutto quello che è valore aggiunto è vettore di cultura. Quando si utilizzano questi beni, si entra nella cultura di coloro che li hanno prodotti. Noi veniamo trasformati dagli abiti europei che indossiamo, dal cemento con cui costruiamo le nostre case, dai computer che riceviamo. Tutto questo ci modella, mentre noi inviamo nei paesi del Nord il cotone, il caffè o il cacao grezzo che non contengono alcun valore aggiunto specifico. In altre parole, veniamo confinati all'interno di aree in cui dobbiamo produrre e guadagnare il meno possibile. E la nostra cultura ha meno possibilità di diffondersi, di partecipare alla cultura mondiale. È per questa ragione che uno dei grandi problemi dell'Africa è la lotta per lo scambio culturale equo. Per questo, bisogna fornire infrastrutture alle nostre culture. Una cultura senza base materiale e logistica non è che un soffio di vento che passa.

Lei appartiene, insieme al senegalese Cheik Anta Diop, a quella generazione di insigni storici africani che ha riscoperto la storia africana e ha reinterpretato la storia mondiale a partire da una prospettiva africana. Voi avete restituito agli africani la loro storia. Da oggetti dell'etnologia europea quali erano, ne avete fatto dei soggetti del loro proprio destino. Come si sa, fino agli anni '60 in Europa era diffusa la convinzione che l'Africa non avesse una storia che valesse la pena di essere raccontata. Che posto occupa la storia africana all'interno della storiografia generale?

L'Africa è la culla dell'umanità. Tutti gli studiosi del mondo riconoscono oggi che l'essere umano è apparso in Africa. Nessuno lo contesta, ma molti lo dimenticano. Sono sicuro che se Adamo ed Eva fossero comparsi in Texas, se ne sentirebbe parlare ogni giorno alla CNN. È vero che gli africani stessi non sfruttano a sufficienza questo "vantaggio comparativo" che consiste nel fatto che l'Africa è stata la culla di invenzioni fondamentali, costitutive della specie umana nel corso di centinaia di migliaia di anni. È a partire dal continente africano che l'homo erectus - grazie al fuoco che ha scoperto (anche Prometeo era africano) e all'amìgdala, un utensile e un'arma perforante molto efficace - ha potuto migrare verso l'Europa. In precedenza, nel Nord del pianeta, ricoperto di calotte ghiacciate, la vita era impossibile; e non vi sono tracce umane in Europa durante i periodi più remoti. È in Egitto che è comparsa la più grande civiltà dell'antichità. La civiltà egiziana è la figlia naturale dei primi tempi dell'Africa in quanto culla dell'umanità, sebbene si sia cercato di staccare dall'Africa il paese dei faraoni pretendendo che facesse parte del Vicino Oriente. Il leader del "Fronte nazionale" francese, Jean-Marie Le Pen, e i suoi compari dovrebbero imparare la vera Storia del mondo. Questo li porterebbe di certo a riconoscere che i loro antenati sono stati i primi immigrati venuti dall'Africa.

Il suo è stato un percorso fuori del comune: ha trascorso gran parte dell'infanzia in Alto Volta (oggi Burkina Faso), in Senegal e nel Mali, dove ha compiuto gli studi primari e secondari, e poi ha frequentato il liceo. In seguito, nel corso degli anni '50, ha studiato storia alla Sorbona di Parigi, ed è stato il primo africano a riuscire ad ottenere l'idoneità all'insegnamento di storia, il più alto riconoscimento accademico. Quali sono i motivi che l'hanno spinto verso gli studi storici? Chi sono stati i suoi professori? Si è occupato di storia africana quando era ancora studente?

No, e d'altronde non la si conosceva, la storia africana. Ho compiuto tutti i miei studi nel contesto francese, con manuali francesi. Nei programmi non c'era niente che riguardasse l'Africa. Da piccoli dovevamo usare un manuale di storia francese che esordiva con: "I nostri antenati, i Galli". All'inizio della nostra formazione c'è stata quindi una deformazione. Abbiamo ripetuto meccanicamente quello che ci volevano inculcare. Più tardi, all'università, ho compiuto tutti i miei studi senza alcun riferimento alla storia dell'Africa, salvo che in una maniera superficiale e sempre in riferimento alla storia europea, per esempio per segnalare il ruolo dell'Africa durante la tratta dei neri. Posso citarle ancora gli argomenti dell'esame di concorso per l'idoneità all'insegnamento superiore di storia: "Firenze nel XV secolo", "La Germania di Weimar"..., ma niente sull'Africa! A poco a poco, questa esclusione mi è apparsa come una mostruosità. Studiando il Medio Evo europeo o il periodo contemporaneo, ho avuto sete di conoscere la storia africana. Essa ha cominciato ad interessarmi perché, per l'appunto, la sua assenza ci faceva male e ci rendeva assetati di conoscerla. Il desiderio di riesumarla, di riappropiarsene, è nato da questa contraddizione.
All'inizio avevo optato per la storia perché mio padre è vissuto a lungo. Era un "uomo di storia". Essendo stato il primo cristiano dell'Alto Volta, aveva interpretato un ruolo particolare nella nostra storia locale, ed amava raccontare. Sono stato dunque iniziato al mestiere di storico da questa educazione. Ritengo anche che la storia sia "maestra di vita" (historia magistra vitae). È una disciplina che forma lo spirito, perché insegna a ragionare in base alla logica e, al di là della scienza, con la coscienza. A poco a poco in me si è andato formando un duplice atteggiamento. L'uno consisteva nel dire: "voglio tornare alle mie radici", un impulso determinante per la costituzione di una personalità matura e autentica. E l'altro che prendeva atto dei molteplici legami che uniscono questo continente a tutte le regioni del mondo nella trama della storia. È così che la mia personalità "ha posto se stessa opponendosi", come dicono i filosofi. Trovo che sia un privilegio beneficiare di una "personalità multidimensionale" (vedi su questo tema Herbert Marcuse). Inoltre, quello che ha destato il mio interesse per la storia africana è il fatto che i neri che avevamo alla Sorbona, come i poeti Aimé Césaire, Léopold Sédar Senghor, René Depestre e altri, ci avevano preparato a uno sguardo senza complessi che rispondeva al disprezzo con una sfida. Inizialmente anch'essi erano stati traumatizzati da questa educazione sbilenca, miope, che disprezzava e occultava i valori della cultura africana - dalle lingue fino alla civiltà materiale. Essi risposero con Alioune Diop attraverso una "presenza africana": un messaggio di rinascita.
Gli storici africani diedero loro il cambio andando ancora più in là. Noi abbiamo affermato la necessità di rifondare la storia a partire dalla matrice africana. Il sistema coloniale si prolungava fino all'ambito della ricerca. Tutte le ricerche nel campo dell'agronomia, della geografia o dell'economia venivano condotte in grandi istituti all'estero. La ricerca era uno degli strumenti della colonizzazione, al punto che la ricerca storica aveva deciso che non esisteva una storia africana e che gli africani colonizzati erano meramente e semplicemente condannati ad "indossare" la storia del colonizzatore. È per questo che noi ci siamo detti che dovevamo partire da noi stessi per arrivare a noi stessi. Lei sa che abbiamo ricercato delle nuove fonti della storia africana, compresa la tradizione orale. Ho dimostrato che il termine "preistoria" era un termine mal posto. Non vedo perché i primi esseri umani che hanno inventato la posizione eretta, la parola, l'arte, la religione, il fuoco, i primi utensili, i primi insediamenti, le prime culture dovrebbero essere al di fuori della storia! Nessuno mi ha contraddetto. Là dove ci sono degli esseri umani, c'è storia, con o senza scrittura! Vede bene che c'erano delle cose da rettificare. In ogni caso, abbiamo ricostruito la storia su basi che non sono specificamente africane, ma essenzialmente africane. Si può dire che noi storici abbiamo compiuto un grosso sforzo. Non dico che noi storici abbiamo fatto tutto noi, ma siamo partiti dalla metodologia, dalla problematica, dall'euristica della nostra disciplina per rinnovarla al servizio del continente africano, ma innanzitutto al servizio della scienza, come amava ripetere Cheik Anta Diop.
Alla Sorbona mi sono gettato anima e corpo negli studi, con passione, approfittando al massimo della rarissima opportunità che ci era stata data d'essere allievi di grandi maestri della scienza storica e politica come Pierre Renouvin, André Aymard, Fernand Braudel, Raymond Aron e altri. Durante questo periodo, ero immerso in un ambiente in cui prevaleva nettamente l'ideologia marxista. Gli studenti africani dell'epoca erano più o meno contrassegnati da questa ideologia a causa della guerra fredda. Noi eravamo dei "soggetti coloniali" con una sovrastruttura intellettuale che era incompatibile con questa condizione. Il marxismo smascherava le realtà camuffate e decodificava i discorsi alienanti che fungevano da alibi. Ostentava un volontarismo capace di fare la storia, di trasformare le società e di andare verso l'elaborazione, la creazione di un "uomo nuovo". C'era dunque, al tempo stesso, la lotta concreta, il rifiuto radicale dello statu quo. Era il tipo di impegno che la nostra condizione di africani esigeva in quel momento. Nel medesimo tempo, mi ha influenzato profondamente Emmanuel Mounier, un filosofo cristiano che ha mantenuto molti elementi della tradizione europea dello spirito critico e della lotta per liberare la persona umana da tutte le forze di oppressione e dall'oscurantismo. Emmanuel Mounier sottolineava che la lotta per la giustizia non deve soffocare la libertà, ma la libertà umana, lungi dall'essere incondizionata, è sempre una libertà soggetta a condizioni.
Certamente, i comunisti africani si autoproclamavano "veri progressisti" e rifiutavano di rinunciare alla piattaforma politica del "socialismo scientifico". Essi sospettavano i cristiani progressisti di condiscendenza nei confronti degli occidentali perché noi, pur considerando la lotta di classe come un dato storico, rifiutavamo di indicarla come opzione teorica e come strategia univoca. La rivoluzione per noi non consisteva necessariamente in una frattura violenta, ma nella trasformazione strutturale inscritta nel tempo, preoccupata per la maggioranza degli indigenti, ma caratterizzata al tempo stesso dal rifiuto di trasferire su delle minoranze dei costi umani incompatibili con un minimo di diritti e dal rigetto del riformismo complice della violenza strutturale dello statu quo. I cristiani africani hanno dimostrato nei fatti di essere nazionalisti come chiunque altro. In periodici come Tam-Tam, per esempio, sono stati all'avanguardia nel dibattito sulla "decolonizzazione" e su un socialismo democratico adattato alle realtà, agli interessi e ai valori dell'Africa.

Tradizionalmente la storia si occupa di questioni riguardanti il passato. Vorrei invitarla a precisare la sua concezione della storia. Lo svolgersi dei processi storici è frutto del caso oppure gli sviluppi storici sono soggetti a leggi? In qualità di storico, come percepisce il futuro?

La storia cammina su due piedi, quello della libertà e quello della necessità. Se si considera la storia nella sua durata e nella sua totalità, si capirà che ci sono, contemporaneamente, continuità e rottura. Ci sono fasi in cui le invenzioni si susseguono e si affollano: queste sono le fasi della libertà creatrice. E ci sono fasi in cui, poiché non sono state risolte le contraddizioni, si impongono delle rotture: queste sono le fasi della necessità. Nella mia comprensione della storia i due aspetti sono collegati. La libertà rappresenta la capacità dell'essere umano di inventare, di proiettarsi in avanti verso nuove scelte, nuove sommatorie, nuove scoperte. E la necessità rappresenta le strutture sociali, economiche o culturali che si vanno concretizzando a poco a poco, spesso in maniera sotterranea, fino ad imporsi su altre cose, sfociando alla luce del sole. In un certo qual modo, l'aspetto della storia costituito dalla necessità ci sfugge, ma si può dire che prima o poi si imporrà da sé. Non possiamo dunque separare i due piedi della storia - la storia-necessità e la storia- invenzione - allo stesso modo in cui non possiamo separare i due piedi di qualcuno che cammina: i due si combinano per andare avanti. Nella misura in cui la storia ha questo piede della libertà, che anticipa il "senso" del processo, rimane presente una grande porta aperta sul futuro. La storia-invenzione chiama il futuro; incita la gente a spingersi verso qualcosa di inedito, che non è stato ancora catalogato, che non s'è visto in nessun posto e che, improvvisamente, viene realizzato da un gruppo di persone. Ciò significa che la "storia-necessaria" non chiude tutto col catenaccio: resta sempre un'apertura.
Prendo un caso molto concreto per mostrare che le due basi, i due motori della storia sono strettamente legati: l'unità africana. Essa si farà, prima o poi, ma in quale modo non lo sappiamo esattamente. Quando Kwame Nkrumah ebbe quest'idea luminosa: "Africa must unite" (L'Africa deve unirsi), c'erano in lui un'ispirazione, una visione e una volontà politica che misero in moto i giovani studenti che noi eravamo a quell'epoca. È questo che io chiamo il piede della libertà. Ma il presidente ivoriano Houphouet-Boigny allora non voleva l'unità africana. Lo rivelò dicendo che la Costa d'Avorio non doveva essere la vacca da latte della Federazione degli Stati dell'Africa Occidentale. Tuttavia, la necessità gli si impose. Quando creò le industrie in Costa d'Avorio, si rese conto che occorreva che altri paesi inviassero dei lavoratori nelle piantagioni e nei cantieri ivoriani. Aveva bisogno dei paesi vicini anche come sbocchi di mercato. Fu così che lo stesso Houphouet-Boigny lanciò il Consiglio dell'Intesa che raggruppa vari Stati dell'Africa Occidentale francofona. Ecco un caso molto preciso in cui vediamo che ci sono, di tanto in tanto, grandi personalità che fanno fare balzi in avanti grazie alla loro inventiva. Ma a volte si rimane a lungo sotto il piede della necessità sotterranea, fino al giorno in cui la gente si dice che bisogna necessariamente cambiare direzione.

Qual è il posto della rivoluzione nella sua concezione della storia?

La rivoluzione è il processo strutturale che fa avanzare, in maniera invisibile, le cose fino al momento in cui la pregnanza di queste stesse strutture è tale che bisogna necessariamente fare un salto qualitativo. Prendo ancora una volta il caso dell'unità africana. Supponiamo di rimanere senza unità ancora per una cinquantina d'anni e che si aggravino i problemi dal punto di vista delle epidemie, dell'analfabetismo, dell'occupazione, ecc. Sono sicuro che gruppi sempre più numerosi nella società civile diranno un giorno: "Non è possibile, basta, quando è troppo è troppo!", e costituiranno gli Stati generali del continente africano. Sarà come nella notte del 4 agosto 1789, durante la quale l'Assemblea nazionale costituente francese votò l'abrogazione degli ultimi privilegi della nobiltà e del clero. Questo sarà un atto altrettanto rivoluzionario del momento in cui Jean Sylvain Bailly, che presiedeva questa memorabile seduta dell'Assemblea nazionale nella celebre sala del Jeu de Paume, dichiarò a nome del terzo stato: "Il popolo riunito non può ricevere ordini". La rivoluzione è il contrario dell'esistente. Non è solamente voltare pagina, ma cambiare dizionario.

Lo storico può predire questo futuro?

No, lo storico può fare considerazioni o previsioni, ma non predizioni profetiche. Ci sono leggi universali nella storia? Si tratta della questione che ha costituito l'inciampo delle teorie marxiste e dello scientismo in generale. Filosofi come il francese Auguste Comte, prima ancora di Karl Marx, hanno voluto predire l'evoluzione della storia umana e dei modi di produzione, basandosi peraltro sull'evoluzione, prima di tutto, dell'Occidente europeo. Elaborando una "teoria degli stadi", hanno creduto che vi fosse uno svolgimento meccanico, puramente materialista, della storia umana. Non confidavano più nella capacità di libertà e nella fondamentale domanda di libertà che contraddistinguono la natura umana. È proprio grazie alla sua indeterminatezza che la specie umana si è distaccata e distinta dagli animali per costituirsi in quanto tale.
Adesso, si cade in un altro pensiero unico che ritiene che il liberalismo totale - non la libertà! - debba liberare tutte le energie positive. Come se la famosa "mano invisibile" esistesse! Anche soltanto questo termine è già contraddittorio, perché l'approccio del liberalismo pretende di essere fondato sulla razionalità più pura. Se la nostra sorte è legata alla mano invisibile, come si può dire che si tratti di qualcosa di razionale? Al contrario, è l'addio alla ragione, l'addio alla razionalità! Il liberalismo diventa una religione perché, per l'appunto, non è più fondato sulle cose razionali, e i risultati positivi non si sono presentati all'appuntamento. Se la mano è invisibile, il piede che calpesta i diritti dei più deboli non lo è.
Per quanto mi riguarda, dirò che siamo giunti a un grande momento della storia umana. Quando la globalizzazione avrà fallito - ed essa è sulla strada del fallimento perché produce non solamente la povertà ma la pauperizzazione - sarà arrivato il tempo per scelte strategiche corrette per l'umanità nel suo insieme. Quando sarà dimostrato che neanche il capitalismo ha una risposta determinante, decisiva, definitiva da dare per una storia umana corretta, forse saranno riunite assieme le condizioni per scoprire finalmente una soluzione specifica: per allestire uno scenario nuovo, inventare una nuova sceneggiatura e preparare un nuovo cast per una rappresentazione nuova più degna dell'essere umano.

 

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